13 Maggio 2019 Mattia

Non ascoltavo (solo) metal #2: On a Wire

Nel 2002 il mio rapporto con l’emo-core era già in fase calante. Non perché non mi piacesse più, ma piuttosto perché ero entrato nell’anno dell’amore folle e devastante per il punkrock ramonesiano. Un amore cieco e sordo, una sorta di fede manichea per cui tutto ciò che era punkrock sì, tutto il resto no. Quindi chiodo in vera pelle pagato una madonna, jeans color jeans strappati (malamente) sulle ginocchia e inevitabili Converse ai piedi. Tutto questo per aderire agli strettissimi canoni del mondo punkrock, canoni che tra l’altro non interessavano a nessuno ma che sembravano doverosi per poter dire di amare davvero i Ramones.

A vent’anni si è stupidi davvero? Direi proprio di sì.

Nonostante ascoltassi regolarmente i Get Up Kids (con “Something To Write Home About”) e moltissimo gli Ataris, sentivo che qualcosa si era già rotto nel mio rapporto con il rock emozionale. Non riuscivo più a pormi verso quel tipo di musica con lo spirito giusto, non adesso che avevo trovato qualcosa di più immediato e divertente come il punkrock. Tuttavia, l’animo umano è composto di dualità, per fortuna, e nel corso dello stesso anno qualcosa sarebbe cambiato. Il 2002 fu infatti anche l’anno della maturità, nel senso di maturità scolastica, quello spartiacque nella vita di ogni giovane italiano da sempre foriero di grandi spunti per produzioni cinematografiche e musicali, in genere banali e dozzinali. Ma più che la maturità in sé fu realmente importante quello che accadde dopo, ovvero il viaggio della libertà, la celebrazione della definitiva fine della scuola, il rito catartico per sancire l’essere diventati grandi e responsabili. Fu con questi ideali di libertà che mi imbarcai con tre compagni di classe in un apocalittico inter-rail che sarebbe dovuto essere finalizzato alla Svezia e alla Norvegia ma che divenne poi un furibondo giro per l’Europa di un mese e mezzo, molto spesso schizofrenico e, quando finirono le risorse, al limite dell’accattonaggio. In tutto questo grand tour ero turbato da alcune questioni di cuore lasciate irrisolte in patria e immagino che sia stato questo ad avermi fatto riavvicinare al genere emozionale, questo e l’ascolto ossessivo/compulsivo di “On a Wire” dei Get Up Kids, uscito poco prima dell’estate.

“On a Wire” è stato il disco con cui i Get Up Kids hanno detto ciao agli stilemi classici del genere e hanno abbracciato una nuova sonorità, più lenta e tranquilla, che immagino non sia piaciuta ai più fan tra i fan. Invece a me conquistò subito per la grande malinconia che trasmetteva, per la semplicità con cui riusciva a farsi capire e, sì, a emozionare. Il che penso che sia davvero il top per IL genere emozionale per antonomasia. È un disco all killers no fillers, tutti i brani sono belli a modo loro e per quasi tutti riesco ad avere un ricordo specifico legato a quel viaggio, nel senso che mi ricordo l’esatto momento in cui ho ascoltato un brano in particolare.

Ma più di tutto ricordo come, mangiando un piatto di pasta a bordo mare poco fuori Bergen, fatta col salmone appena pescato dallo zio di uno dei miei compagni di viaggio, anche lui in Norvegia (in camper) e incontrato quasi per caso, mi sia venuta in mente Campfire Kansas. Il salmone era davvero eccezionale, la pasta pure e lì, sotto il sole norvegese, a una latitudine in cui non ero mai stato, mi sono sentito un po’ nel mio Kansas personale, alla fine di una bella giornata. Ma soprattutto mi sono ritrovato a pensare che quel momento me lo sarei ricordato per sempre e che forse quel senso di libertà che sentivo così scrosciante dentro di me non l’avrei mai più provato.

Non mi sbagliavo, per entrambe le cose.

 

What we lost means nothing 
For the memories will stay

 

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