Non ascoltavo (solo) metal #2: On a Wire

Nel 2002 il mio rapporto con l’emo-core era già in fase calante. Non perché non mi piacesse più, ma piuttosto perché ero entrato nell’anno dell’amore folle e devastante per il punkrock ramonesiano. Un amore cieco e sordo, una sorta di fede manichea per cui tutto ciò che era punkrock sì, tutto il resto no. Quindi chiodo in vera pelle pagato una madonna, jeans color jeans strappati (malamente) sulle ginocchia e inevitabili Converse ai piedi. Tutto questo per aderire agli strettissimi canoni del mondo punkrock, canoni che tra l’altro non interessavano a nessuno ma che sembravano doverosi per poter dire di amare davvero i Ramones.

A vent’anni si è stupidi davvero? Direi proprio di sì.

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Non ascoltavo (solo) metal #1: Smash

Ricordo ancora molto bene la prima volta che ho sentito parlare di punk. Era alle macchinette automatiche delle bevande nel corridoio un po’ triste e molto squallido del liceo, in prima superiore (o quarta ginnasio se siete di quelli che tengono a questa distinzione un po’ rétro). Due o tre compagni di scuola parlavano di punk e metal e io, che ieri come oggi ero schivo, patologicamente asociale ma assai curioso, fremevo dalla voglia di capirne di più. Anche perché i miei ascolti fino a quel momento oscillavano tra Sottotono, Articolo 31 e le cassette di rock-folk- pop-beat di mio padre risalenti agli anni ormai già lontani della sua gioventù. Alla quarta volta che qualcuno diceva che il punk era davvero troppo figo presi il coraggio a due mani e chiesi, molto timidamente, che cosa fosse il punk (sic!). La risposta fu molto concisa e un filino fredda: è come il metal ma con le chitarre meno brabrabrang e più veloce. L’informazione non mi fu molto utile considerando che la cosa più metal che avevo sentito in quel momento era forse “Nine Lives” degli Aerosmith (che rimane in ogni caso un bel disco). Ringraziai e me ne tornai in classe a bere il mio thè freddo alla pesca, capendo al contempo che non sarei mai stato il più popolare del liceo e che di musica non ne sapevo davvero nulla.

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Organizzare concerti fa male al cuore #1: La puntualità

Se ben ricordo, bazzico nell’ambito dell’organizzazione eventi in maniera più o meno professionale da almeno 8 anni e se dovessi pensare a una parola per descriverli sarebbe una e una sola: ansia.

Sono una persona estremamente apprensiva, lo sono in tutte le occasioni. Ho un’ossessione maniacale per la puntualità che mi spinge ad arrivare sempre in anticipo a tutti i miei appuntamenti (molte volte anche in anticipo sull’anticipo che mi ero prefissato).Questo mi porta a vivere una vita di solitudine e cocenti delusioni visto e considerato che la maggior parte delle persone che conosco va in direzione ostinata e contraria.

Se ci spingiamo nell’ambito dei concerti, questa mia condizione raggiunge livelli cosmici.

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TogetHER #1: due chiacchiere con Duo Sole

 

Together è una piccola rassegna di concerti di domenica, orario brunch, in uno dei nostri posti preferiti in centro a Torino. Abbiamo pensato di costruirla tutta al femminile. Noi di Dotto siamo in 6 e solitamente discutiamo fino all’esasperazione per qualsiasi decisione, ma l’idea di una rassegna 100% donna ci ha messo subito d’accordo. Siamo anche 6 maschi, di conseguenza ci pare di affrontare la “questione femminile” dall’altra parte del fiume, con il timore di sbagliare qualcosa. A conti fatti, il solo pensare alle domande giuste da fare in questa sede ci sembra molto difficile. Non pensate che sia proprio questo il problema principale?

Non abbiamo capito… qual è la domanda ? 😂 se il problema è porre le giuste domande a delle artiste ci sembra che ci siate riusciti, sbirciando un po’ le prossime domande… se invece la questione riguarda il problema di come affrontare le donne è delicato in casi come questo. Dove sta la differenza tra due artisti uomini e due artiste donne? Sempre di arte si parla, di persone che hanno fatto la scelta di dedicarsi alla musica nella vita, è così importante il genere? Rassegne come questa, che apprezziamo e stimiamo, mettono in evidenza che una differenza, o forse più di una, ci sia ancora.

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Who/what the f*** is Dotto?

Ci siamo trovati in otto sotto un tetto, quello di un’improvvisata, ma affascinante sala prove dislocata nei meandri del Piero della Francesca, Torino. Correva l’anno 2014. Abbiamo combattuto l’umidità, tagliato pezzi di legno, srotolato tappeti persiani, comprato microfoni e schede audio, creato una cornice nera di amplificatori e iniziato a perdere qualche decibel in un upside down tutto nostro, senza la luce del sole, ma con un frigo pieno di birre.

Poi, tra una prova e l’altra, è arrivata l’estate 2015. Ci siamo trasferiti sui balconi di case roventi e nei dehors di circoli Arci e con l’ausilio di un centinaio di sigarette siamo arrivati a dare un nome proprio a tutte quelle idee nate grazie alla condivisione di uno spazio comune: Dotto. Che ci crediate o no, trovare quel nome è stata una delle imprese più ardue delle nostre umili vite.

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